1/15/2007

Gli ultimi Inuit



Domenica 7 gennaio, è uscito su Repubblica l'articolo di Giampaolo Visetti. E' un articolo molto drammatico che getta un sasso nello stagno dell'indifferenza.
Spesso si parla di Artico dimenticandoci il dramma di molte popolazioni native. Ne riporto la trascrizione. Dal 2002 mi occupo di Ammassalik e conosco bene personalmente le persone citate nell'articolo.
I lettori del blog riconosceranno i nomi (Robert Peroni, il cacciatore Tobias, lo scultore Gedion...).
Giampaolo Visetti mi aveva preannunciato che non mi sarebbe piaciuto l'articolo, invece mi piace e lo reputo utile.

E' possibile anche scaricarlo dalla rete.

GLI ULTIMI INUIT.
I GHIACCIAI SI SCIOLGONO, LA CACCIA E' PROIBITA: IL PICCOLO POPOLO DEL GRANDE NORD SI STA ESTINGUNEDO IN UN'EPIDEMIA DI SUICIDI.


E' appeso fuori dalla porta rossa, rigido come un mazzo di alisangà steso ad essiccare. Il pìterak polare, frustandolo, lo solleva verso il cielo nero. I cani da slitta mugolano da ore. Non possono assaggiarlo, così piegato dal vento.
Anche Taqissimat, nell’indistinguibile notte artica, si è impiccato. Tre cacciatori di foche, al primo chiarore, lo adagiano in una baracca ghiacciata. Altri giovani corpi, ibernati, attendono il sole di giugno per essere sepolti sotto cumuli di pietre.
Il popolo più felice del mondo ha deciso di morire.
Giù al porticciolo paralizzato nel pack, i vecchi pescatori accusano Tornarak, il demone cattivo che sorvola le piste innevate sulle ali del corvo. Il dieci per cento dei figli della Groenlandia varca ormai volontariamente la soglia del mare eterno prima dei diciotto anni. Fino a quindici suicidi di adolescenti, ogni primavera, in villaggi di cento persone. Una taciuta, inarrestabile strage.
Gli stessi Inuit nascondono la propria autocondanna all’estinzione. La vecchia Gudrun, la sciamana che interrogava i tupilaq in osso di narvalo, aveva visto tutto: il popolo del Grande Nord, mongoli polari scacciati dalle steppe siberiane, sterminato dall’incontro con l’uomo a cui cresce il pelo sulle guance.
Le notizie dei suicidi, per fame o per onore, sono rimaste a lungo imprigionate tra gli iceberg. Fino a quando anche Nikapianguaq si è immersa nell’oceano con i suoi quattro bambini. Enok, il suo uomo, era scomparso nel fiordo. Travolto dalla slitta. Nessuno avrebbe più portato carne. Così lei è andata incontro alla regina che libera le foche grasse, nascoste nei suoi lunghi capelli bianchi. La tragedia degli Inuit, per la prima volta, ha conquistato i titoli dei giornali danesi.
Davvero la gente del sorriso, l’eschimese che non conosce guerra, violenza e tristezza, ha scelto di sparire prima dell’ultimo scontro con la civiltà occidentale? La conferma, venerdì pomeriggio, è distesa davanti al magazzino di Tasiilaq.
Decine di corpi giacciono tra i cristalli di neve. Come morti, tra lattine di birra e bottiglie di vodka. Ogni due settimane uomini e donne ritirano il sussidio danese e lo consumano per dimenticare. Qualcuno brucia tutto in shampoo e tintura arancione per capelli. L’80 per cento si ubriacano. Iniziano a dieci anni, assieme ai genitori. Avvelenati dall’alcol, a trent’anni sono vecchi. Smarriscono il sesto senso che salva dalla banchisa e suggerisce i passi dell’orso bianco. Indifesi nella natura che li ha sempre protetti. Le statistiche imputano la depressione sociale alla prolungata mancanza invernale di luce.
Tobias Ignatiussen, il cacciatore più forte della Groenlandia orientale, strizza ancora di più le fessure degli occhi. No. «Foche», dice. «E televisione».
Il primo bianco, nelle baie dell’Ammassalik, spuntò nel 1884. I marines americani, nella Seconda guerra mondiale. Il primo turista provò a sciare verso Ikateq nel 1982. Ghiaccio e correnti, bloccando i fiordi, avevano isolato per secoli gli Inuit. Anche dai vichinghi, che ne avvistavano il fumo.
Un igluliak in blocchi di neve ogni quaranta chilometri, per ingannare l’olfatto delle foche. Un paio di incontri all’anno con un altro clan indigeno. Credevano che il ghiaccio, frantumandosi nella baia di Baffin, facesse rotta verso il nulla. Poi i loro kayak di cuoio si sono schiantati nelle baleniere d’acciaio norvegesi. Anni Cinquanta: uno spartiacque, per la loro esistenza. Dalla civiltà dell’avorio di tricheco a satellite, computer, elicottero e infine cellulare. Dalle pelli di foca alle corone danesi. Troppo, in vent’anni.
I cacciatori sono stati soppiantati dai polli surgelati dello spaccio. I loro figli, analfabeti, non sostengono l’assiduità di una professione. Balbettano tre dialetti asintattici e polisillabici. Non possono più essere groenlandesi; non saranno mai protagonisti dell’Occidente. Anche Pàvia e suo figlio Simiujok, nell’iglu di torba, sonnecchiano ipnotizzati davanti ai film-spazzatura acquistati con i contributi statali.

Trecento videoregistratori e quaranta tivù per 3100 persone. Vecchie epopee naziste, i fantasmi del passato proiettati nel presente. Si dileguano, se avvistano un baffuto qrattunàq, il colonizzatore bianco.
Sono convinti che Hitler sia ancora vivo e che palleggi con il mondo nel Reichstag di Berlino.
Le loro mute di indomabili husky, intanto, perdono la sensibilità che li riporta sulla via invisibile del villaggio. «Li abbiamo narcotizzati e condannati ad una morte lenta», dice Otto Soerensen, per diciassette anni psicologo a Nuuk, «ma loro preferiscono autodistruggersi subito».
Poi sono arrivati gli ecologisti. Greenpeace e Wwf, qui, sono sigle assimilate alla Gestapo: un nemico spietato. Vietato cacciare foche. Vietato cacciare orsi. Vietato cacciare balene. I prezzi sono crollati.
Tobias traduce nella lingua degli iivi, gli uomini: vietato sopravvivere. «In Groenlandia nessuno», dice, «ha mai sterminato i cuccioli di foca con mazze e picconi. Il peso dell’animale, per noi, è valore. Una sera ci hanno comunicato che in Europa nessuno avrebbe più acquistato carne, pelli e ossa.
In due mesi centinaia di cacciatori Inuit si sono sparati». Sui fiordi di Kalaallit Nunaat, fino al nord dell’ultima Thule, il 40 per cento degli abitanti è morto di fame. Un colonialista eccidio colposo, dettato da ignoranza e arroganza culturale. Uno scandalo dimenticato del nuovo secolo.
Nell’Artico un maschio che non caccia è inutile. Perde la sua autorità sul clan, la fiducia in se stesso. Si vergogna. Deve stendere la mano che impugnava l’arpione. «Non può più andare a caccia», sussurra il villaggio. Come quando i colleghi della Borsa dicono di un amministratore delegato: «Ha il cancro». A Londra crolla un titolo.
A Tinetiqilaq uno finisce diretto nella sfida del tamburo. Per tre giorni, al ritmo trasmesso dallo stomaco dell’orso, due condannati si provocano davanti al villaggio. Le risate di amici e parenti decretano chi è salvo e chi deve lasciare la famiglia. L’abbandonato non rivede i fiori gialli di giugno. Nell’incertezza, la guerra delle battute può essere ripetuta per anni. Fino a quando lo sconfitto si allontana, tra l’ilarità generale, per morire da solo.
«I filmati canadesi sulla caccia», dice il sindaco di Tasiilaq, Maro Mikkaelsen, «sono stati devastanti. La verità ora è stata ristabilita, gli animalisti hanno mandato le scuse via fax: ma era troppo tardi». Quest’anno i 2.556 Inuit affacciati sull’Islanda, sparsi su una superficie ghiacciata più lunga dell’Europa, hanno catturato 160 mila foche, 568 beluga, 794 narvali, 35 orsi bianchi e 3 balene. Niente, rispetto alla popolazione selvatica. Consiglio artico e Ue stanno per contingentare la cattura di foche e orsi. L’esportazione è di nuovo vietata.
Un cacciatore poteva guadagnare mille euro al mese: sfamava la famiglia, era forte, poteva generare dieci figli, che gli procurassero carne anche da vecchio. Un disoccupato riceve 300 euro dal governo di Copenhagen: mangia due volte alla settimana, vale meno dello sterco di bue muschiato, i suoi bambini spariscono nelle raffiche dolci e umide del femminile Naqaiaq. A cacciare, nel sud dell’isola più grande del mondo, sono rimasti in 250. Meno del doppio in tutta la Groenlandia. Un cortocircuito biologico ed esistenziale.
L’umanità vittoriosa ha stabilito che questa minoranza non conta nulla. Non riesce a tutelarla, non la capisce. Chiacchiera sul clima, ignora la povertà che non fa notizia, la fame che uccide anche nel nord del pianeta. Ora si accorge della propria sconfitta. Non ha protetto gli eredi estremi di migrazioni millenarie. Una perdita irreparabile e incalcolabile. Gli anziani groenlandesi rinunciano a mettere il fucile nelle mani dei nipotini di cinque anni. Poco dopo, gonfi di whisky e abbracciati nel chiarore elettrico dell’aurora boreale, bussano alla “Red House”.
Sono le tre di notte. Anche Nasunguaq e Uiuat barcollano tra altri corpi rannicchiati al caldo dell’unico centro sociale eretto sul Circolo polare artico. Hanno vent’anni, indossano Levi’s e calzano All Star. Sono fidanzati e disperati. Anni di serial tv hanno insegnato come fingono di vivere i loro coetanei di Parigi e New York. Non accettano più la polvere di neve spruzzata tra le fessure della truna, la solitudine, la puzza di foca fritta e interiora di bue muschiato impregnata nella pelle. Ora sanno che c’è un altro mondo e un’altra vita. Irraggiungibili. Si battono sul cuore. «Ho freddo qui dentro», dice la ragazza. «Abbiamo paura». Smaltiscono la sbronza quotidiana tra una massa di miserabili compaesani alcolizzati. A rivestirli, riscaldarli, sfamarli ed ascoltarli, solo l’italo-tedesco Robert Peroni.
Gli Inuit, piuttosto che lamentarsi, preferiscono crepare. «Sono un popolo romantico. Vivono di sogni, fieri e indifesi come i bambini. Nel 1980 mi hanno chiesto di restare qui», dice Peroni. «Ho scelto di essere uno di loro e di non abbandonarli più». Dietro il dramma di quelli che alla fine del Novecento erano gli individui più felici e longevi del pianeta e che oggi muoiono in media a cinquant’anni, emerge una figura straordinaria. Alpinista, scopritore solitario degli immensi deserti africani ed esploratore, Peroni è l’unico essere umano ad aver attraversato la Groenlandia del nord da solo e senza assistenza: 1400 chilometri, 88 giorni a piedi sul ghiaccio. Scalava gli iceberg alla deriva e le vette inviolate che emergono dal mare con pareti ghiacciate di tremila metri. Conteso da sponsor e donne affascinanti, in Europa guidava una Porsche. Era “mister No Limits”, il re del Polo. Una notte ha risposto al richiamo degli inascolati poveri dell’ignorato nord del mondo. Animista, sposo spirituale di una sciamana, padre adottivo di molti Inuit, è evaso per sempre dalla prigione della fama. Ha accettato di comprare e aprire a tutti la Red House. Giorno e notte, sempre. Chi si salva dall’alcol viene assunto per riscattare gli altri. Chi rinuncia al suicidio impara a guidare gli scialpinisti lungo i pendii più emozionanti della Terra. Chi non beve cucina per gli altri e mangia gratis. I cacciatori eskimesi riprendono a penetrare nelle antiche valli da preda assieme agli ospiti. La sera i risorti dell’Ammassalik giocano a carte, intagliano denti di orca, spolpano merluzzo e alibut, ballano. Possono tornare a battere il tamburo per raggiungere la sublimazione che li mette in contatto con le anime dei defunti.
Gli abbandonati del paradiso artico stanno raccogliendo le firme infantili di chi non sa scrivere. La voce solca le baie sui veloci umiak in pelle di foca. Condannati all’estinzione culturale, gli Inuit vogliono fare l’ultimo regalo al loro adàda: chiedono che al “padre” italiano venga assegnato il premio Nobel per la pace. Mai una denuncia, un contributo, una richiesta di elemosina. Ha restituito loro la dignità, lotta per soffocare l’odio etnico contro i danesi, dimostra che anche un eskimese può lavorare nella dittatura del consumo. «C’è un solo modo», dice Peroni, «per comprendere questa cultura. Viverla. Trasferirsi in essa, pregare di essere sopportato come ospite discreto, imparare la lingua. Ma nell’istante in cui si inizia a capire, si perde il bisogno di spiegare. Chiarire un fenomeno significa allontanarsi da esso».
Pure adesso, gravemente ammalato, il “Hghobert” degli Inuit è tornato. È al lavoro con gli ultimi, per rallentarne l’estinzione. Il 2007 sarà l’Anno internazionale polare. «Invece che bruciare milioni in inutili convegni», dice lo scultore di avorio Gideon Qeqe, «si potrebbe risarcirci riconoscendo la grandezza del missionario laico che ci ha amato e compreso, rinunciando a giudicarci». Un’idea folle, che scuote il Nord, spaventa, ma raccoglie consenso. Anche il suo figlio adottivo, Asser, tre anni fa si è tolto la vita. Aveva 27 anni. Sognava di essere un grande cacciatore, di avere una famiglia numerosa e di vivere libero nella natura. Invece era solo uno dei tanti auto-isolati. In settembre ha atteso che il suo adàda lasciasse Tasiilaq per qualche giorno. «Sapevo che non poteva sopravvivere », dice Peroni, «ma è stata la mia sconfitta. Certe cose non puoi esprimerle: devi accettare ciò che vedi e quello che senti».
Un riconoscimento mondiale a Peroni sarebbe un atto di giustizia per gli Inuit, ma pure un impegno a rispettare tutti i popoli minacciati e le minoranze della Terra. Il primo segnale d’attenzione verso l’ambiente più fragile e incantato che si possa guardare. Il cielo è viola quando Ululiq infila le dita nella manopola di pelliccia. La baia è silenziosa. La banchisa è rotta da strisce gialle, da cui tracima una gelatinosa acqua verde. Dietro i crinali, del ghiaccio si spezza e sembra che l’inverno tuoni contro il vento. Il cacciatore di Sermiligaq, anni fa, ha accompagnato Peroni sulle Alpi. Non credeva che nei masi alti, al sommo dei pascoli scoscesi, potesse vivere qualcuno. «Impossibile», sentenziò. «Come farebbero a trascinare i trecento chili di una foca fino lassù?». I due amici, per Capodanno, cercano un animale da arrostire insieme. Forse è l’ultima occasione offerta dalla sorte. Ululiq racconta per la millesima volta la leggenda dell’uomo-aquila che fuggì dai bianchi cattivi volando verso il Sole. Poi la storia del tamburo che seguitava ad essere percosso dopo che lo sciamano se ne era andato. Nei miti è racchiusa l’anima del loro popolo.
Sognano e sparano. La foca si irrigidisce sul bordo del foro aperto nel pack. Un rivo bruno s’impregna nel giaccio azzurro. Armonia con la natura, sul fiordo, significa uccidere. Ancora un giorno, liberi. Gli Inuit hanno deciso di morire. Ma non rinunciano a vivere.
(le fotografie sono le mie)

3 commenti:

Anonimo ha detto...

..ho letto con la solita stretta allo stomaco (quando sento degli inuit e della Groenlandia).
E' veramente angosciante e allarmante allo stesso tempo pensare che un popolo che per secoli è riuscito a vivere dignitosamente e fieramente in una terra "ostile" per tanti aspetti (ma pur sempre la sua terra) ora non riesca quasi a sopravvivere, schiacciato tra ciò che vede, grazie alla nostra tecnologia, e la consapevolezza di "non essere visto". Chi si ricorda di loro?

Anche adesso che sembra che ci siamo svegliati e che ci stia tanto a cuore la salute del pianeta e la tutela dell'Artico, in quanti servizi si è sentito parlare di inuit, di persone, di uomini e donne e ragazzi che saranno danneggiati -finiti?- dallo sconvolgimento climatico di cui peraltro non hanno nessuna responsabilità?
Nei servizi (che cominciano anche un pò ad urtarmi perchè li trasmettono praticamente ogni giorno quando poi non sembra esserci una seria volontà politica nell'affrontare il problema)... dicevo, nei servizi, quasi romanticamente, ci fanno vedere immensi iceberg e orsi -magari cuccioli- dalla pelliccia immacolata... certo, fanno molta presa e molta "tenerezza"... Quando avremo tenerezza dell'uomo? e quando sapremo partire anche da questo semplice e istintivo sentimento per risvegliare davvero una coscienza più responsabile? Quando decideremo di vederli ?

Sicuramente non saremo noi a salvarli ma se sono felice di avere incontrato te e gli altri è anche perchè almeno mi avete fatto vedere (ed anche un pò capire...).
Insieme, ed anche ciascuno singolarmente, abbiamo fatto "vedere" anche ad altri, bambini e non solo e penso che questo sia importante. Certo, non cado a mia volta nel romanticismo, so che non sarà questo a salvare gli inuit... forse però si sono sentiti meno soli e dimenticati quando ogni anno vi hanno visto tornare, quando ai bambini avete portato a vedere le riviste del Polo con le loro foto...

Buon lavoro in questo 2007, Anno Internazionale delle Aree Polari.

Anonimo ha detto...

Il commento della lettrice è molto bello e profondo. condivido in pieno la riflessione.

Anonimo ha detto...

Il commento della lettrice è molto bello e profondo. condivido in pieno la riflessione.