5/31/2007

La ricerca nelle aree estreme




Oggi alle 16 parliamo al museo polare di ricerca negli ambienti estremi.
Sarà con noi Michele Impara del PNRA.

Impara ha passato nel 2006 un intero anno nella stazione di Concordia.

Un'altra bella occsione per approfondire il nostro impegno nelle "aree estreme".

5/29/2007

Inuit e polinesiani uniti contro il global warming

Territori ghiacciati e tropicali sembrano avere un nemico comune: 40 delegazioni di cacciatori Inuit dal Canada e dalla Groenlandia, i pastori di renne Sami norvegesi, i capi villaggio della Polinesia francese, delle Figi e gli amministratori delle isole dei Caraibi sono riuniti in Belize per discutere di cambiamento climatico.

Lo strato di ghiaccio dell’Artico sparisce, mentre spiagge tropicali, isole e atolli, barriere coralline rischiano di sparire sommerse o soffocate dal mare che riscalda.

«Ci sono tante somiglianze fra le due regioni - ha detto alla Reuters Grete Hovelsrud, del Center for international climate and environmental research di Oslo - e noi speriamo in una collaborazione internazionale».

I popoli dell’Artide e delle isole tropicali dipendono dalle coste: gli Inuit contano sulla banchisa polare per la caccia alle foche, mentre gli abitanti delle isole contano sulla pesca o sul turismo che è richiamato dalle spiagge bianche, dalle barriere coralline e dalle palme, ma nel grande nord il ghiaccio sta sparendo e nei mari del sud il mare sta facendo sparire isole e riserve d’acqua dolce.

In Belize questa strana alleanza sta cercando di dare voce e peso politico a piccoli popoli dimenticati.

I colloqui dovrebbero raggiungere un accordo per un piano di lavoro quinquennale ed ad esaminare le possibilità per un più vasto studio sulle minacce incombenti sulle piccole isole, sul modello di quanto già fatto nel 2004 per l´Artide da 250 esperti che preconizzava il veloce scongelamento dei territori artici e l’aumento dell’assorbimento di calore per la sparizione della calotta ghiacciata che riflette i raggi solari.

5/28/2007

Sven Hedin

Mi è capitato di trattare la vita del grande studioso Giuseppe Tucci. ho effettuato una piccola ricerca e tra i vari indizi che seguivo mi sono imbattuto in Sven Hedin, un esploratore dall'altissimo valore scientifico e simbolico.
Reputo l'Himalaya un pò come una sorta di terza area polare, convinzione che mi si è rafforzata quando a roma ho partecipato ad un convegnod del CNR sulle ricerca nelle aree estreme (magari in futuro pubblico alcune note su questo convegno).
Riporto una biografia scritta dal redattore della rivista "Il Polo" Cesare Censi.





Sven Hedin: il più importante esploratore del Tibet del secolo scorso

La seconda metà del XIX secolo è stata caratterizzata dall'intensificarsi di viaggi di esplorazione verso terre estreme di difficile accesso e verso luoghi ancora poco conosciuti dal mondo occidentale. Questa "politica" geografico-esplorativa era incoraggiata sia da governi che da istituzioni private tanto che molti giovani erano attratti dal fascino di possibili imprese e da una vita esaltante e ricca di emozioni. In questo periodo storico il giovane Sven Hedin - nato a Stoccolma nel 1865 da Ludwig, architetto-capo della città, e da Ann Berlin - viveva un'adolescenza arricchita dalle letture stimolanti di James Fenimore Cooper e Giulio Verne, oltre che dai resoconti delle imprese di Livingstone. Ma la molla che fece scattare qualcosa nello spirito intrepido del ragazzo fu il ritorno nel porto di Stoccolma - il 24 aprile 1880 - della Vega di Erik Nordenskiold dopo la scoperta del Passaggio a Nord-Est. Entusiasmato dall'impresa appena compiuta dal grande esploratore, il giovane Sven si ripropose in cuor suo di diventare egli stesso esploratore e di raggiungere per primo il polo Nord.

Con il passare del tempo la passione per l'avventura e per l'esplorazione - seppur sempre viva - subì una trasformazione radicale riguardo ai territori da visitare. La meta delle imprese non erano più i luoghi freddi e inaccessibili - per l'epoca - dell'Artide ma i paesaggi più caldi e aridi dell'Asia centrale. La causa di questo cambiamento fu la permanenza di un anno (1885) a Baku, presso una famiglia svedese. Da qui, con mezzi provvisori e pochi soldi in tasca, Hedin si spostò fino in Persia percorrendo più di 1.500 km. Approfittò dell'occasione per imparare il tartaro e il persiano; al suo ritorno in patria scrisse il resoconto di questo breve ma determinante viaggio che vendette ad un editore per 600 dollari, somma ingente per quell'epoca. Da questa prima esperienza Hedin trasse anche la convinzione che fosse fondamentale, per i viaggi che aveva in progetto, avere una conoscenza approfondita della geologia e della geografia. Per questo motivo si iscrisse alle università di Stoccolma e di Berlino - dove insegnava Ferdinand von Richtofen, che in seguito avrebbe avuto grande influenza sulle ricerche compiute nel corso delle sue spedizioni - e completò la propria formazione scientifica.




Nel 1890 Hedin ripartì con destinazione il Krasan e il Turkestan. Fu la prima volta che vide Kashgar, il grande centro lungo la Via della Seta e dove si trovava il più grande bazaar dell'Asia. Qui incontrò Francis Jounghusband, che del giovane svedese tracciò sulla carta questa vivida immagine: "Il dott. Sven Hedin mi impressionò per la vera statura di esploratore - fisico robusto, cordiale, di umore costante, calmo e perseverante... lo invidiavo per i suoi doni linguistici e le sue conoscenze scientifiche ottenute presso i migliori maestri d'Europa".

Il primo vero viaggio di esplorazione, quello che corrispondeva al suo spirito ed ai suoi ideali, ebbe luogo nel 1893 quando Hedin attraversò la Russia asiatica fino al Pamir, tentando di scalare il Mustag Ata (7800 m.) senza riuscirci e cercando inutilmente di avventurarsi all'interno del Tibet contro il volere delle autorità locali che glielo impedirono. Nonostante questi primi insuccessi, il viaggio "iniziatico" ebbe comunque alcuni effetti positivi. Primo fra tutti conquistò il cuore di Sven Hedin, che rimase affascinato dalle leggende circolanti attorno al deserto del Takla-Makan, "un oceano di sabbia che non finisce mai", che narravano di città morte depositarie di tesori inghiottiti dalla sabbia. Al ritorno scrisse. " L'Asia intera era aperta a me. Ho sentito di essere chiamato a fare scoperte senza limiti che mi attendono proprio nel mezzo del deserto e sulle vette delle montagne. In questi tre anni, tanto è durato il viaggio, il mio principio guida è stato esplorare solo queste regioni dove nessuno è mai arrivato prima". Prima ancora di veder pubblicati i risultati della spedizione appena conclusa, era di nuovo in Asia (1899) per risolvere "l'enigma geografico" del Lop-Nor. Giunto a Kashgar decise di attraversare il Turkestan orientale e risalire tutto il corso del Tarim, "il più grande fiume dell'interno dell'Asia", fino ad allora "assai incerto" e constatò quanto fosse "diverso il suo percorso da quello che appariva sulle carte precedenti". Il Tarim sfociava nel Kara-Koshun e questo fatto dimostrava quanto fosse errata l'ipotesi di Przeval'skij il quale riteneva che questo lago fosse l'antico Lop-Nor. Di contro la risalita del letto asciutto del Kurruk-darja, "un vero fiume fossile", in certi tratti sembrava "una specie di grande cimitero di pioppi, di canne e di molluschi" e in altri invece sviluppava una vegetazione di pioppi che era alimentata da una falda acquatica sotterranea. La conclusione cui giunse fu che "il terreno sul quale camminiamo deve essere stato ricoperto dall'acqua dell'antico Lop-Nor". Scoprì anche un nuovo lago "che può considerarsi come un braccio assolutamente nuovo del Tarim" in un luogo praticamente privo di vegetazione che gli fece subito ipotizzare che fosse "stato inondato solo da poco tempo". Lo spirito audace che lo animava nella ricerca fu premiato anche dalla scoperta "per caso dei primi miseri resti di Lou-lan". Questa antica città sulla Via della Seta che dopo il 330 d.C. fu abbandonata dai suoi abitanti per non essere più ripopolata e che si credeva scomparsa, non si trovava, come si poteva pensare, sulle rive di un lago, ma nel bel mezzo del deserto. I ritrovamenti di conchiglie, di una brocca di argilla, una pentola cinese di rame, un grande piatto lavorato e soprattutto la tomba di una giovane principessa, dimostrarono che quel luogo era anticamente abitato e doveva trattarsi di Lou-lan. Il fenomeno geografico che aveva provocato la sua "morte" era dovuto al cambiamento di direzione dei fiumi che avevano lasciato senza immissari il Lop-Nor.

I risultati ottenuti da questa nuova spedizione sarebbero stati considerati soddisfacenti da chiunque ma non da Hedin che, nonostante avesse scoperto l'antica Lou-lan, verificato l'esistenza del Lop-Nor e dimostrato l'inconsistenza della tesi di Przeval'skij che lo indicava invece nel Kara-Koshun, e infine trovato un nuovo lago nel deserto, si ripromise "di esplorare questa regione ancora una volta". Voleva verificare la sua idea, che riprendeva una ipotesi di von Richtofen, la quale prevedeva per il Lop-Nor un "movimento" che lo portava ad essere classificato come "lago migratore".

Dopo tre anni, come previsto, ripartì. La sua indole inquieta e irrefrenabile trovava riposo solo "nella infinita libertà del deserto, nelle sconfinate pianure remote, là giù tra i monti nevosi del Tibet... avendo per compagni il vento, che oggi solleva le onde e il bosco che comincia ad ingiallirsi". Questo ritorno fu dettato dalla convinzione "a priori" di Hedin che esistesse "proprio in quella regione uno dei problemi più belli e più importanti che aspettassero ancora la soluzione nella geografia fisica dell'Asia". Il 16 ottobre 1905 "l'anniversario di quello stesso giorno in cui, dodici anni prima, m'ero posto in cammino per il mio primo viaggio a traverso i deserti dell'Asia" riprese la strada verso sud, verso quella terra ancora sconosciuta e ricca di misteri che tanto lo seduceva. Piuttosto che formulare teorie e ipotesi che avrebbero poi dovuto essere sottoposte a verifica pratica con la possibilità più che remota di vedere sconfessate le conclusioni, Hedin pensava bene "di studiare co' miei propri occhi le terre ignote che costituiscono il centro della regione tibetana settentrionale". Gli intenti di questa nuova spedizione erano di trovare le sorgenti dell'Indo ed esplorare le regioni centrali del Tibet dove ancora nessun occidentale aveva messo piede e nemmeno "quegli arditi esploratori nati che sono i "panditi" indiani". Hedin aveva letto sul Tibet e in particolare sull'Himalaya quanto era disponibile all'epoca ma non aveva trovato testi che riportassero in maniera completa la descrizione della catena montuosa più alta del mondo. Solo "fantastiche congetture" o resoconti e descrizioni che "denotavano solo singole porzioni di un sistema complesso". Questo fatto gli aveva ancor più stimolato la mente e accresciuto il desiderio di visitare quei territori avvolti nelle nebbie del mistero e per molti versi proibiti. L'aura di sacralità e inviolabilità che si avverte un po' ovunque in Tibet - nelle valli profonde come in alta montagna - è maggiormente percepibile di fronte a quegli eventi per i quali si è dedicata la propria esistenza. Così avvenne per Hedin quando si trovò faccia a faccia con le sorgenti dell'Indo, "questo misero ruscelletto" che i tibetani chiamano Singki-kamba, il fiume Leone e quelle del Brahmaputra, "che ha origine dallo scioglimento delle nevi... - tanto che - da per tutto gli è un pullulare e uno scorrere di rivoletti in mezzo ai detriti" e quando scoprì il Manasarovar, "il bacino d'acque più sacre di tutta la terra". Le stesse sensazioni e riflessioni lo colsero al cospetto delle alte vette himalayane mentre attraversava passi montuosi sopra i 5.000 metri fino ad allora sconosciuti o quando riconosceva una conformazione orografica autonoma da una catena montuosa che non aveva denominazione propria ma tanti nomi, che non davano la giusta visione d'insieme. Hedin mise ordine a questo "colossale sistema di monti, il quale corre parallelo all'Himalaya" proponendo un nome "che non potesse dar luogo ad equivoci" e scelse Trans-Himalaya, restando però consapevole che "il lungo viaggio" altro non era stato che una "fuggevole ricognizione sommaria" di un paese sconosciuto. Il suo augurio era che in avvenire esploratori meglio preparati tecnicamente e con conoscenze scientifiche maggiori si avventurassero per quei monti ed eliminassero quelle "macchie bianche" che ancora resistevano alla conoscenza.

I risultati della spedizione, finanziata da re Oscar di Svezia, da Alfredo Nobel, da società geografiche europee e da industriali inglesi, furono poi pubblicati in libri rimasti fondamentali nella storia delle esplorazioni e soprattutto dell'Asia. L'attività scientifica di Hedin, comunque, non si limitò alle sole pubblicazioni ma ebbe un seguito con conferenze tenute presso istituti scientifici di tutta Europa. Venne anche in Italia invitato dalla Società Geografica Italiana e nell'Aula Magna del Collegio Romano, alla presenza dei reali italiani, ministri, ambasciatori, personalità della cultura, espose i risultati conseguiti nell'ultimo viaggio. Il giorno dopo fu ricevuto anche dal papa e, ricordando queste giornate romane, scrisse: "Fu per me sommo onore essere invitato nella terra di Marco Polo... e la medaglia d'oro che mi fu consegnata in quella circostanza, è una delle maggiori ricompense alle mie fatiche". Quando ormai si pensava che la sua attività di esploratore fosse terminata, considerando anche l'età avanzata, nel 1927 Sven Hedin approntò una grande spedizione scientifica sino-svedese che avrebbe studiato l'Asia centrale - dalla Mongolia alla Kashgaria - in tutti gli aspetti: geologico, botanico, topografico, meteorologico, archeologico, antropologico ecc. e disegnato la grande carta geografica della regione. Ovviamente si rendeva conto che questa spedizione non poteva essere come le precedenti, dove l'avventura aveva avuto un ruolo se non predominante certamente non secondario e dove l'ambizione della scoperta individuale non aveva il sopravvento sugli altri aspetti. Nonostante fosse notevolmente impegnato nell'impresa, aveva sempre fisso in mente il grande "enigma geografico" del Lop-Nor che ancora non era stato compiutamente risolto. Nel 1928, durante una conversazione con un mercante di Turfan, tale Tokhta Ahun, seppe che sette anni prima, durante la piena monsonica, la riva sinistra del Konche-darja aveva rotto gli argini e riversato le proprie acque nel letto del "fiume fossile" Kurruk-darja. Quest'ultimo, chiamato ora con il nuovo nome di Kum-darja (Fiume delle Sabbie), era un vecchio immissario del Lop-Nor e questa nuova situazione idrografica ricostruiva le antiche mappe e dimostrava, ormai senza dubbi, che il lago era "errante", si spostava, cioè, con il modificarsi dei corsi dei suoi immissari. La notizia mise subito in fermento lo svedese che immediatamente si organizzò per avere il permesso necessario per attraversare la regione e arrivare al Lop-Nor. "Ma tutte le vie gli erano inevitabilmente precluse" in quanto il governatore Chin Shu-jen, disobbedendo persino a Chang Kai-Shek, negò ogni permesso. Nel frattempo altri esploratori - Aurel Stein e Schomberg - erano venuti a conoscenza del nuovo corso del Tarim e si erano mossi a livello politico per avere le autorizzazioni e dirigersi nel cuore dell'Asia centrale e togliergli la gioia del primato della scoperta. Hedin mal sopportava l'idea che "altri cogliessero i frutti del lavoro da noi dedicato al problema del Lop-Nor", così pensò di "agire rapidamente" e d'astuzia. Approfittando dell'importanza - militare e commerciale - che rivestiva per il governo cinese una strada che collegasse il Kansu con lo Xinjiang senza deviare verso Nord come succedeva allora, associò il suo interesse per il "lago errante" con questa convenienza cinese e chiese i permessi per esplorare la regione. Il governo repubblicano di Nanchino pensò, da parte sua, di sfruttare l'occasione per mandarlo a visitare una zona che in quel momento non era molto sicura per le scorribande di Ch'ung-yin, il "Grande Cavallo" e gli accordò l'autorizzazione. Così Hedin si trovò di nuovo a percorrere "questa regione deserta quanto si suppone possa esserlo un paesaggio lunare" fino al lago, "quel pacifico lago, sulle cui acque prima d'ora nessuna barca è mai scivolata" e finalmente determinò le ragioni di questo suo spostamento. "In un territorio desertico, la cui superficie è praticamente piana quanto quella del mare, i corsi d'acqua devono essere assai sensibili alle minime variazioni di livello" da far deviare il percorso, ma quello che più colpì Hedin fu che i cinesi, nonostante conoscessero il lago da sempre e lo chiamassero P'u-ch'ang, non ebbero mai sentore che fosse errante.

Ricevette in vita molte onorificenze, lauree honoris causa, 42 medaglie d'oro, 15 decorazioni. Il suo sostegno al nazismo, però, oltre a creare seri problemi al governo del suo paese, che si era dichiarato neutrale, dette occasione alla Royal Geographical Society di revocargli la carica di membro onorario, malgrado a suo tempo gli avesse conferito due medaglie. Morì dimenticato dal mondo il 26 novembre 1952, poche settimane prima della pubblicazione del suo ultimo libro.

La figura di questo esploratore, l'ultimo in senso classico, è da annoverare tra quelle che hanno caratterizzato un'epoca. Le sue spedizioni a dorso di cammello, a piedi o su barche quanto mai improbabili, hanno permesso di ricostruire, geograficamente e cartograficamente, aree terrestri fino ad allora conosciute solo approssimativamente. La sua formazione scientifica e metodologica, influenzata dallo scientismo di von Richtofen, lo condussero verso una ricerca più analitica che antropologica senza per questo sminuire l'importanza ed il valore delle sue spedizioni. A questo riguardo si può riportare quanto scrisse Tucci nella sua relazione di viaggio in Tibet, che definisce "una delle terre più inospitali e aspre dell'Asia", nel 1935: "Sven Hedin in un'opera monumentale ha dimostrato come lentamente sia progredita la conoscenza geografica di un paese che fino a pochi decenni fa era ancora per i più una terra di mistero". Una terra arida, desolata, disabitata, priva di qualsiasi comodità, difficile da percorrere, ma che nonostante tutto considerò sempre "la terra de' miei sogni".




5/23/2007

Note

Ieri in tanti ci siamo trovato in Chiesa al funerale di Giuliano. Vecchie e nuove generazioni di alpinisti e "polaristi".
Macciò, il celebre alpino di Jesi protagonista di tante spedizioni in tutto il pianeta, con Desiderio Dottori, altro alpinista di Jesi, entrambi compagni di spedizione di Giuliano, Beretta, Corsalini. Dalle Ande, all'Africa fino alle terre artiche... Baffin, Svalbard, Groenlandia....
Tanti giovani vicino ai "Maestri". proiettati verso le vette più alte, i deserti di ghiaccio e sabbia, le Ande e le terre dell'eterno ritorno.

Oggi sono usciti tantissimi articoli sulla nostra spedizione, ma è anche il giorno della riflessione sul nostro lavoro e così ho deciso di rimandarne la pubblicazione.

MI preme scrivere che mi sto interessando alla Terra di Francesco Giuseppe. Wayprecht la scoprì nel 1873 e nel 1878 propose lui stesso la creazione dell'Anno Polare Internazionale.

5/21/2007

Ultima Vetta




Oggi ci ha lasciato il nostro amico Giuliano Mainini di Macerata.
Giuliano è stato un grande alpinista, di quelli che hanno infiammato la nostra gioventù. Ha scalato montagne in tutto il pianeta e ha sempre avuto una grande apertura di cuore per le popolazioni incontrate.
Più volte nell'Artico: Terra di Baffin, Svalbard, Groenlandia orientale..(nella foto con i membri marchigiani di una spedizione in Groenlandia).

A Lui si devono nuove scoperte nel campo delle scienze naturali, anche pubblicate sulla rivsta "Il Polo".

Istruttore CAI di scialpinismo e alpinismo ha formato intere generazioni di alpinisti e Uomini.

A Lui abbiamo dedicato la nostra ultima spedizione.

Che Iddio lo accolga tra le sue alte Vette.

5/17/2007

COMUNICATO STAMPA





ISTITUTO GEOGRAFICO POLARE
“SILVIO ZAVATTI”



Comunicato Stampa

RITORNATA IN ITALIA LA SPEDIZIONE DELL’ISTITUTO GEOGRAFICO POLARE NELLE ISOLE SVALBARD, IN OCCASIONE DELL’ANNO POLARE INTERNAZIONALE.

attraversata con successo una zona delle isole ed effettuati esperimenti di valutazione funzionale per conto del progetto “Carta dei Popoli Artici”.




Fermo, 18 maggio 2007.

E’ appena rientrata in Italia una spedizione polare organizzata dal Progetto “Carta dei Popoli Artici” dell’Istituto Geografico Polare “Silvio Zavatti” (Comune di Fermo) nell’ambito dell’Anno Polare Internazionale.

Gli anni Polari Internazionali, che quest’anno giungono alla loro quarta edizione (i precedenti eventi si svolsero nel 1882 – 1883, nel 1932 – 1933 e nel 1957 – 1958, quest’ultimo prendendo il nome di Anno Geofisico Internazionale) rappresentano uno dei principali momenti di collaborazione scientifica internazionale, vedendo impegnati per un anno decine di migliaia di scienziati e di ricercatori di tutto il mondo, che lavorano su programmi condivisi in un quadro di totale scambio di informazioni e di massima collaborazione.
Rispetto ai precedenti anni polari, incentrati essenzialmente sulla ricerca geofisica, quello del 2007 – 2008 presenta un’interessante novità: oltre che alle scienze della terra, i ricercatori saranno impegnati in progetti che riguardano lo studio dell’ambiente umano, con un occhio particolare per quelle popolazioni che insistono sull’Artico interessate – come ormai noto – da cambiamenti climatici che si prospettano epocali.

Questo inedito settore di studio è stato prontamente recepito dal Comune di Fermo (Regione Marche) che, in collaborazione con l’Istituto Geografico Polare “Silvio Zavatti” ed il CNR-Polarnet, ha varato il progetto “Carta dei Popoli Artici” che prevede il monitoraggio delle popolazioni che vivono nell’Artico effettuando sulle stesse studi antropologici, etnografici, storici e archeologici, così da offrire un quadro completo della presenza umana in quello che viene definito il “regno dei ghiacci”. Tale progetto è stato ufficialmente inserito fra i programmi dell’Anno Polare Internazionale, assumendo così un’importanza che, può andare a vanto dell’Italia intera.

La spedizione alle Isole Svalbard ha visto la partecipazione di nove componenti guidati da Gianluca Frinchillucci, direttore dell’Istituto Polare e del progetto “Carta dei Popoli Artici”. Oltre a Frinchillucci hanno partecipato Enrico Mazzoli di Trieste, Michele Pontrandolfo, Carlo Zerbinati e Marco Giogesi di Pordenone ed i marchigiani Massimo Zanconi, Ugo Tesei, Luca Natali e Giorgio Marinelli, quest’ultimo alla sua terza spedizione nell’ambito del progetto “Carta dei Popoli Artici”.

La spedizione aveva tre obiettivi:

effettuare una traversata a piedi, in stile classico dell’ambiente artico sulle tracce degli europei che a partire dal XVII° Secolo si spinsero in quelle regioni ghiacciate a caccia di foche e di animali da pelliccia, spesso senza fare più ritorno e, nel contempo, effettuare esperimenti di valutazione fisiologica e nutrizionale, coordinati dal prof. Pierluigi Pompei dell’Università degli Studi di Camerino.

Il terzo obiettivo della spedizione consisteva nella sensibilizzazione e la conoscenza delle Aree Polari in occasione dell’Anno Polare Internazionale e la spedizione è stata molto seguita dai mass media.



La spedizione ha scelto come destinazione le Svalbard anche per sensibilizzare l’opinione pubblica sul drammatico problema dei cambiamenti climatici che in queste isole norvegesi stanno avvenendo con una velocità doppia rispetto al resto del pianeta, rappresentando così un anticipo di quello che nel corso dei prossimi anni potrebbe accadere più a sud.

Nel mese di maggio verranno diffusi i primi dati degli esperimenti condotti e, in seguito, saranno resi noti i prossimi obiettivi del progetto “Carta dei Popoli Artici”.
L’Istituto Geografico Polare “Silvio Zavatti” comprende anche il Museo Polare Etnografico, unica realtà italiana dedicata all’Artico.

La spedizione è stata dedicata all’esploratore polare Giuliano Mainini.

5/14/2007

Svalbard



Siamo appena tornati dalle Svalbard, presto pubblicheremo notizie sulla bella esperienza che abbiamo vissuto.
Per il momento ringrazio tutti i miei collaboratori ed in particolare Roberto Pazzi, che con tanta professionalità e affetto mi aiuta sempre e Cesare Censi, un valentissimo ricercatore dal cuore grande.


Nella foto da sinistra:

Carlo di Pordenone, sci alpinista "solido"
Ugo di San Ginesio, il più giovane del gruppo. Una colonna nei momenti di diffcoltà.
Io
Enrico Mazzoli di trieste, il più anziano. Un pozzo di scienza con due gambe robustissime. Studioso dell'Anno Internazionale Polare.
Michele di Pordenone, una delle più forti promesse tra i polaristi
Luca Natali di Macerata, scialpinista ed archeologo
Giorgio Marinelli allas ua terza spedizione polare
Marco di pordenone un forte scialpinista
Massimo Zanconi, fotoreporter titolare della CMR di Macerata

Abbiamo dedicato la spedizione al nostro alpinista polarista Giuliano Mainini che in questo momento sta scalando la sua cima più difficile.

5/13/2007

ANNO INTERNAZIONALE POLARE

Riporto un articolo che ho pubblicato per la rivista di viaggio Arte Nomade. Ho tolto le citazioni e le foto per semplificare la lettura.

ANNO INTERNAZIONALE POLARE 2007-2008
Dai grandi esploratori del passato al progetto di ricerca “Carta dei Popoli Artici”


Il nostro pianeta, granello insignificante di sabbia perduto fra milioni di mondi, la distanza fra i quali viene talvolta espressa in centinaia di anni luce, è ancora lontano dall’essere del tutto esplorato e scoperto.

Internet e la televisione ci permettono, in una frazione di secondo, di visitare virtualmente ogni angolo della terra; un’illusione ci consente di credere che tutto sia vicino e facile. Senza sacrificio e sforzo.

Con la pura ragione è possibile trovare tutte le risposte e non c’è più bisogno di sperimentare direttamente sul campo, soffrendo e rischiando la propria pelle.

"La maggior parte della gente - come osservava il reporter Kapuscinski – parte per riposarsi (…) I giovani compiono viaggi di tipo agonistico, come cimentarsi nell’attraversamento dell’Africa del nord, o navigare sul Danubio in kajak. Non si interessano alla gente incontrata per strada: il loro scopo è di mettersi alla prova”.

Una tendenza che, spesso, porta solo alla pura commercializzazione dell’impresa.

A volte ci chiediamo se esistano ancora uomini capaci di donare tutto quello che hanno per superare le porte del mondo, per poter entrare nelle terre inesplorate e ricavarne un bene per la collettività; e se ci sono ancora delle aree del pianeta dove ciò sia possibile.

Alcune di queste ultime zone sono sicuramente rappresentate dalle regioni polari: l’Artide e l’Antartide. Aree dove scienziati ed esploratori stanno cercando di comprendere i molti meccanismi che regolano il clima del nostro pianeta.

Questi uomini mettono la propria vita al servizio della collettività per capire ciò che sta succedendo in ambito climatico e quale impatto hanno gli agenti inquinanti sul nostro ecosistema. Alcuni di loro indagano sugli usi e costumi delle popolazioni indigene artiche e subartiche, studiando l’umanità più antica e cercando di salvare le ultime espressioni della loro tradizione.

L’antropologo Mario Polia ama usare una metafora per definire questo tipo di lavoro: quella del notaio che raccoglie le ultime volontà del moribondo. Infatti, com’è noto, sono culture che stanno scomparendo rapidamente.

Riguardo alle spedizioni polari, già alla fine del secolo XIX il Duca degli Abruzzi, zio del celebre Duca d’Aosta, responsabile di una grande impresa polare che raggiunse una latitudine nord mai toccata dall’uomo, scrisse:
«Spesso si è discussa l’utilità delle spedizioni polari. Se si considera solo il vantaggio morale che si ricava da tali spedizioni, io lo credo sufficiente a compensare i sacrifici che per esse si fanno. Come gli uomini, che nelle lotte quotidiane, col superare le difficoltà, si sentono più forti per affrontarne delle maggiori, così è delle Nazioni, che dai successi riportati dai propri figli si devono sentire maggiormente incoraggiate e spinte a perseverare nei loro sforzi per la propria grandezza e prosperità».

Il celebre esploratore norvegese e Premio Nobel per la Pace Fridtjof Nansen, negli anni (era la fine dell’Ottocento) in cui ferveva una vera e propria corsa ai Poli, pronunciava parole molto dure contro chi sostituiva con la vanità del raggiungimento del traguardo, l’attrazione dell’ignoto e la curiosità di nuove conoscenze:

« (…) Con le gare l’addestramento del corpo è degenerato, divenendo meno sport: e tutto quello che è soltanto sport non ha molto valore. Invece di produrre uomini sani e indipendenti, lo sport crea dei vanitosi (…) ».

Gli esploratori polari erano Uomini d’azione e di cultura che hanno spinto se stessi e i propri uomini oltre i confini della Terra. Omero nel primo canto dell’Odissea sembra proprio evocarli:
«Musa, quell’uomo di multiforme ingegno che molto errò… che città vide molte, e dell’indole conobbe, che sovr’esso il mare sofferse affanni…».

Quando l’eroico Shackleton, nell’inverno del 1909, lasciò la base di Capo Royds per affrontare le incognite paurose del Polo antartico, disse a coloro che gli erano vicini e potevano capirlo:
«Prego e spero ardentemente di vincere; ho dato a questa impresa l’anima mia».

Tutta l’anima. E’ vero. Erano uomini puri sui quali la comodità, le agiatezze o anche il lavoro di una vita comune non hanno esercitato nessuna attrattiva, per i quali le feste, i ritrovi eleganti, la carriera, non rappresentavano che piccole cose di gente mediocre, si illuminavano nello sguardo al pensiero di azioni avventurose.

Li soggiogava l’imperio della scienza, erano attratti dal fascino che esercitava nelle loro anime il mistero di terre inesplorate, la voce potente dell’ignoto.

Uomini di mare lanciati verso l’ignoto. Ultimi uomini di un mondo che stava morendo…. di un mondo reso sempre più globale e “facile”…

In Italia ne abbiamo avuti molti, tra questi il già nominato Duca degli Abruzzi, il generale Umberto Nobile, Gennaro Sora ed i suoi alpini, Guido Monzino, primo italiano a raggiungere il Polo Nord con una squadra di fortissimi alpinisti, (come il valdostano Rinaldo Carrel), Il comandante Giovanni Ajmone Cat che negli anni settanta raggiunse due volte l’Antartide con il suo motoveliero “San Giuseppe II”, prima imbarcazione italiana a raggiungere il Continente Bianco. Il capitano di lungo corso Silvio Zavatti, tra i primi italiani a raggiungere l’Antartide e precursore degli studi etnografici polari; il primo studioso italiano che si è occupato sistematicamente delle aree polari e Mario Zucchelli, pioniere delle ricerche polari al Polo Sud e direttore dei progetti di ricerca italiani in Antartide.

Una storia fatta di uomini eccezionali, che hanno lasciato un’eredità molto impegnativa: unire l’avventura e la scienza a beneficio della collettività.

Difficile farlo oggi, quando quasi tutto è legato ad un’ottica di mercato; ma ci sono ancora tanti studisi ed esploratori che stanno emulando i loro Padri, seguendoli sulla via dei ghiacci eterni e dei popoli senza voce.

Tra loro anche un gruppo di studiosi italiani che hanno dato il via, nel 2002, al progetto di ricerca “Carta dei Popoli Artici”, ideato e coordinato da chi scrive. Un programma di lavoro nato per dar voce alle etnie artiche e subartiche e per organizzare nuove spedizioni di ricerca.

Difficile descrivere quello che si prova durante una spedizione polare. Forse vale la pena di affidarsi di nuovo alla penna di Nansen:
« (…) Non vi è nulla di più bello della notte polare. Un’immagine fantastica dalle tenui tinte, senza contorni netti: è un armonia di colori crepuscolari, da sogno; una musica lontana e indefinita di violini in sordina. Ma la vita non è sempre bellezza sublime, delicata e pura come questa notte? (…) ».

5/03/2007

Partenza Svalbard

Domani sera partiamo per le Svalbard. Finalmente.

Al gruppo si è aggiunto Luca Natali, già collaboratore dell'Istituto Geografico Polare e scialpinista.

Oggi chiudiamo tutti gli zaini e domani pomeriggio Il prof. Pompei dell'Un. di Camerino ultimerà le analisi pre-partenza.
Ieri ha effettuato una prima serie di analisi e al rientro paragonerà tutti i valori.
Verso le 19 partiremo per Milano. Abbiamo l'aereo sabato mattina alle 06.00.

Domani alle h.10 terrò a Fermo una conferenza sull'Anno Internazionale Polare ed il progetto "Clima che Cambia".

Riprenderò il blog al rientro verso il 15. Se avrò modo tenterò di aggiornarlo anche prima.

Per informazioni è possibile contattare il Museo Polare: info@museopolare.it
o la mia collaboratrice al seguente email: gianluca.frinchillucci@polarmap.org