Riporto un articolo che ho pubblicato per la rivista di viaggio Arte Nomade. Ho tolto le citazioni e le foto per semplificare la lettura.
ANNO INTERNAZIONALE POLARE 2007-2008
Dai grandi esploratori del passato al progetto di ricerca “Carta dei Popoli Artici”
Il nostro pianeta, granello insignificante di sabbia perduto fra milioni di mondi, la distanza fra i quali viene talvolta espressa in centinaia di anni luce, è ancora lontano dall’essere del tutto esplorato e scoperto.
Internet e la televisione ci permettono, in una frazione di secondo, di visitare virtualmente ogni angolo della terra; un’illusione ci consente di credere che tutto sia vicino e facile. Senza sacrificio e sforzo.
Con la pura ragione è possibile trovare tutte le risposte e non c’è più bisogno di sperimentare direttamente sul campo, soffrendo e rischiando la propria pelle.
"La maggior parte della gente - come osservava il reporter Kapuscinski – parte per riposarsi (…) I giovani compiono viaggi di tipo agonistico, come cimentarsi nell’attraversamento dell’Africa del nord, o navigare sul Danubio in kajak. Non si interessano alla gente incontrata per strada: il loro scopo è di mettersi alla prova”.
Una tendenza che, spesso, porta solo alla pura commercializzazione dell’impresa.
A volte ci chiediamo se esistano ancora uomini capaci di donare tutto quello che hanno per superare le porte del mondo, per poter entrare nelle terre inesplorate e ricavarne un bene per la collettività; e se ci sono ancora delle aree del pianeta dove ciò sia possibile.
Alcune di queste ultime zone sono sicuramente rappresentate dalle regioni polari: l’Artide e l’Antartide. Aree dove scienziati ed esploratori stanno cercando di comprendere i molti meccanismi che regolano il clima del nostro pianeta.
Questi uomini mettono la propria vita al servizio della collettività per capire ciò che sta succedendo in ambito climatico e quale impatto hanno gli agenti inquinanti sul nostro ecosistema. Alcuni di loro indagano sugli usi e costumi delle popolazioni indigene artiche e subartiche, studiando l’umanità più antica e cercando di salvare le ultime espressioni della loro tradizione.
L’antropologo Mario Polia ama usare una metafora per definire questo tipo di lavoro: quella del notaio che raccoglie le ultime volontà del moribondo. Infatti, com’è noto, sono culture che stanno scomparendo rapidamente.
Riguardo alle spedizioni polari, già alla fine del secolo XIX il Duca degli Abruzzi, zio del celebre Duca d’Aosta, responsabile di una grande impresa polare che raggiunse una latitudine nord mai toccata dall’uomo, scrisse:
«Spesso si è discussa l’utilità delle spedizioni polari. Se si considera solo il vantaggio morale che si ricava da tali spedizioni, io lo credo sufficiente a compensare i sacrifici che per esse si fanno. Come gli uomini, che nelle lotte quotidiane, col superare le difficoltà, si sentono più forti per affrontarne delle maggiori, così è delle Nazioni, che dai successi riportati dai propri figli si devono sentire maggiormente incoraggiate e spinte a perseverare nei loro sforzi per la propria grandezza e prosperità».
Il celebre esploratore norvegese e Premio Nobel per la Pace Fridtjof Nansen, negli anni (era la fine dell’Ottocento) in cui ferveva una vera e propria corsa ai Poli, pronunciava parole molto dure contro chi sostituiva con la vanità del raggiungimento del traguardo, l’attrazione dell’ignoto e la curiosità di nuove conoscenze:
« (…) Con le gare l’addestramento del corpo è degenerato, divenendo meno sport: e tutto quello che è soltanto sport non ha molto valore. Invece di produrre uomini sani e indipendenti, lo sport crea dei vanitosi (…) ».
Gli esploratori polari erano Uomini d’azione e di cultura che hanno spinto se stessi e i propri uomini oltre i confini della Terra. Omero nel primo canto dell’Odissea sembra proprio evocarli:
«Musa, quell’uomo di multiforme ingegno che molto errò… che città vide molte, e dell’indole conobbe, che sovr’esso il mare sofferse affanni…».
Quando l’eroico Shackleton, nell’inverno del 1909, lasciò la base di Capo Royds per affrontare le incognite paurose del Polo antartico, disse a coloro che gli erano vicini e potevano capirlo:
«Prego e spero ardentemente di vincere; ho dato a questa impresa l’anima mia».
Tutta l’anima. E’ vero. Erano uomini puri sui quali la comodità, le agiatezze o anche il lavoro di una vita comune non hanno esercitato nessuna attrattiva, per i quali le feste, i ritrovi eleganti, la carriera, non rappresentavano che piccole cose di gente mediocre, si illuminavano nello sguardo al pensiero di azioni avventurose.
Li soggiogava l’imperio della scienza, erano attratti dal fascino che esercitava nelle loro anime il mistero di terre inesplorate, la voce potente dell’ignoto.
Uomini di mare lanciati verso l’ignoto. Ultimi uomini di un mondo che stava morendo…. di un mondo reso sempre più globale e “facile”…
In Italia ne abbiamo avuti molti, tra questi il già nominato Duca degli Abruzzi, il generale Umberto Nobile, Gennaro Sora ed i suoi alpini, Guido Monzino, primo italiano a raggiungere il Polo Nord con una squadra di fortissimi alpinisti, (come il valdostano Rinaldo Carrel), Il comandante Giovanni Ajmone Cat che negli anni settanta raggiunse due volte l’Antartide con il suo motoveliero “San Giuseppe II”, prima imbarcazione italiana a raggiungere il Continente Bianco. Il capitano di lungo corso Silvio Zavatti, tra i primi italiani a raggiungere l’Antartide e precursore degli studi etnografici polari; il primo studioso italiano che si è occupato sistematicamente delle aree polari e Mario Zucchelli, pioniere delle ricerche polari al Polo Sud e direttore dei progetti di ricerca italiani in Antartide.
Una storia fatta di uomini eccezionali, che hanno lasciato un’eredità molto impegnativa: unire l’avventura e la scienza a beneficio della collettività.
Difficile farlo oggi, quando quasi tutto è legato ad un’ottica di mercato; ma ci sono ancora tanti studisi ed esploratori che stanno emulando i loro Padri, seguendoli sulla via dei ghiacci eterni e dei popoli senza voce.
Tra loro anche un gruppo di studiosi italiani che hanno dato il via, nel 2002, al progetto di ricerca “Carta dei Popoli Artici”, ideato e coordinato da chi scrive. Un programma di lavoro nato per dar voce alle etnie artiche e subartiche e per organizzare nuove spedizioni di ricerca.
Difficile descrivere quello che si prova durante una spedizione polare. Forse vale la pena di affidarsi di nuovo alla penna di Nansen:
« (…) Non vi è nulla di più bello della notte polare. Un’immagine fantastica dalle tenui tinte, senza contorni netti: è un armonia di colori crepuscolari, da sogno; una musica lontana e indefinita di violini in sordina. Ma la vita non è sempre bellezza sublime, delicata e pura come questa notte? (…) ».
1 commento:
leggere l'intero blog, pretty good
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